Il Monastero di Castelletto, o meglio, il priorato cluniacense dei S. S. Pietro e Paolo di Castelletto Cervo (BI) è oggi un luogo presso il quale, in una significativa cornice ambientale, è possibile ammirare le imponenti strutture monumentali appartenute ad una delle più ricche e potenti fondazioni monastiche del medioevo subalpino. Una rinnovata consapevolezza da parte della comunità locale – rappresentata dal Comune, dalla Parrocchia e dalla Comunità Collinare “Tra Baraggia e Bramaterra”– le indagini ormai da anni condotte sul complesso dall’Università del Piemonte Orientale di Vercelli, grazie anche al sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Vercelli, congiuntamente agli interventi, a diverso titolo, delle Istituzioni preposte al patrimonio culturale del territorio – Ufficio Beni Culturali Ecclesiastici della Diocesi di Vercelli, Soprintendenza ai Beni Archeologici del Piemonte e Museo Antichità Egizie, della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici delle province di Torino, Asti, Biella, Cuneo, Vercelli, della la Soprintendenza per i Beni Storici, Artistici ed Etnoantropologici del Piemonte – hanno portato alla riscoperta del valore del sito, entrato di recente a far parte del Grande Itinerario Culturale Europeo dei Siti Cluniacensi, a seguito dell’adesione alla prestigiosa Fédération Européenne des Sites Clunisiens. Oggi l’associazione Amici del Monastero di Castelletto si propone di strutturare una sistematica azione di valorizzazione e promozione, nell’ambito della quale rientrano il sostegno alle attività scientifiche condotte dall’Università, attività didattiche proposte alle scuole, momenti di apertura al grande pubblico e divulgazione, organizzazione di iniziative per il reperimento dei fondi necessari alla cura ed alla buona conservazione delle strutture monumentali, già peraltro oggetto di un recente lavoro di consolidamento promosso dalla Parrocchia. Questo sito vuole essere un primo invito a scoprire le molteplici sfaccettature di un luogo di grande suggestione, emergenza monumentale di spicco tra le alte terre vercellesi e le colline biellesi e punto di partenza per ripercorrere un segmento affascinante di arte e storia del Piemonte.
La visita del complesso inizia dal cortile antistante la casa parrocchiale: in questo spazio oggi aperto e impreziosito da alcune monumentali robinie pluricentenarie sorgeva un tempo il chiostro del monastero. Le sue strutture di fondazione e alcuni piani pavimentali sono stati scavati tra il 2009 ed il 2012 dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”: quattro gallerie verosimilmente porticate chiudevano sui lati uno spazio aperto, probabilmente destinato in origine a giardino, e definivano un quadrilatero a sud della chiesa monastica – attuale parrocchiale – e ad ovest della manica claustrale, oggi ancora esistente seppure trasformata in casa parrocchiale. Alcune sepolture medievali sono emerse dalle gallerie nord ed ovest, dato che aiuta – nel generale silenzio delle fonti scritte – a ricostruire l’immagine del chiostro, evidentemente destinato a luogo di inumazione, verosimilmente per individui anche con una posizione sociale eminente (tra cui benefattori laici, come denuncia il ritrovamento di uno sperone da cavaliere in una delle tombe).
Era probabilmente collocata nell’area claustrale la grande vasca circolare in pietra, che sino ai primi anni ’80 del Novecento – prima di essere trafugata – era utilizzata in chiesa come acquasantiera. Si trattava con ogni probabilità di una vasca di fontana, forse legata al lavabo. In questo caso l’acqua contenuta all’interno e zampillante per mezzo di dodici teste leonine poteva servire per le abluzioni rituali dei monaci: di certo si trattava di uno dei manufatti più significativi della scultura romanica piemontese, recante incisa anche la firma di tale “Albertus sculptor” e attribuibile al XII secolo.
Sotto la copertura ad intonaco moderna (data agli inizi dell’Ottocento la ristrutturazione del fabbricato e la sua riduzione allo stato attuale) la casa parrocchiale nasconde murature medievali conservate sino alla quota dei tetti, e nella porzione sinistra della facciata laterale sud sono chiaramente leggibili i resti di aperture antiche – successivamente tamponate – costituenti i punti di snodo e connessione nei percorsi di circolazione interna alla struttura monastica. L’ampio portale, del quale è visibile la ghiera in pietra lavorata dell’arco, rappresentava verosimilmente l’accesso dal chiostro alla zona forse pertinente alla sala capitolare, attualmente occupata dalla sacrestia e da alcuni locali di servizio.
Il prospetto meridionale della chiesa reca i segni degli interventi di risistemazione successivi alla trasformazione in parrocchia ed all’avvenuta demolizione del chiostro: la serie di porte e finestre – un tempo servite da un ballatoio ligneo – collocata nella parte superiore della parete è riferibile al momento in cui, in età moderna, vennero abbattute le volte delle navate laterali e ricostruite ribassate, così da ricavare sopra di esse lo spazio sufficiente per la costruzione di alcune stanze di abitazione per il parroco (a sud) ed un lungo granaio (a nord).
Nonostante questi interventi la chiesa romanica è tuttavia ancora conservata quasi integralmente nelle sue linee, e alcuni dettagli consentono di intravvederne le originarie connessioni con l’area del chiostro. Una piccola porta, sulla parete della chiesa in prossimità della base del campanile, consentiva la circolazione tra la galleria nord e il transetto: notevole è la ricercatezza della sua struttura, caratterizzata da elementi lapidei scolpiti e da un accurata disposizione dei conci dell’arco e dei frammenti di laterizi di reimpiego nella lunetta. Accanto al portale laterale attuale spiccano i resti di un’altra apertura, ed una terza è ancora leggibile sulla testata dell’avancorpo. Sostanzialmente intatto, malgrado l’inserzione del quadrante affrescato dell’orologio e la risistemazione della copertura, è il campanile, la cui sommità si apre in quattro trifore dotate di colonnine coronate da elementi lapidei scolpiti originali.
Il prospetto meridionale della chiesa reca i segni degli interventi di risistemazione successivi alla trasformazione in parrocchia ed all’avvenuta demolizione del chiostro: la serie di porte e finestre – un tempo servite da un ballatoio ligneo – collocata nella parte superiore della parete è riferibile al momento in cui, in età moderna, vennero abbattute le volte delle navate laterali e ricostruite ribassate, così da ricavare sopra di esse lo spazio sufficiente per la costruzione di alcune stanze di abitazione per il parroco (a sud) ed un lungo granaio (a nord).
La visita dell’avancorpo può iniziare dal suo interno, non prima di aver apprezzato la vista suggestiva che dal sagrato della chiesa si gode sulla sottostante pianura, sulla confluenza del torrente Ostola nel Cervo e, in lontananza, al margine verde della baraggia di Candelo e Mottalciata. Il vano, rischiarato in origine da quattro bifore (oggi sono solo tre, dopo la trasformazione di una di esse in monofora probabilmente in età basso medievale: capitelli e colonnine hanno recentemente sostituito gli originali, trafugati in anni recenti), si mostra essere chiaramente il risultato dell’addossamento di un portico, in origine ad un solo piano, alla facciata romanica della chiesa: di quest’ultima si intravvede una parte degli stipiti e dell’architrave lapideo dell’originario portale di accesso, in gran parte occultato dalla nuova edificazione: un’ampia porzione della sua lunetta, ornata da un affresco medievale raffigurante un Cristo benedicente, si può ammirare al di sopra delle volte.
La perdita di una di queste ultime consente di scorgere in parte anche la fascia alta dell’antica facciata della chiesa, oggi nascosta dall’avancorpo: spiccano monofore con cornici in pietra lavorata e laterizi, frammenti di affreschi, la lunetta del portale d’accesso alla chiesa, e, appena sotto il colmo, i resti di un’apertura cruciforme. Decori ad affresco dovevano ornare in origine la facciata: piccole tracce di motivi decorativi policromi emergono infatti in prossimità degli spigoli dei pilastri addossati alla parete per sostenere gli archi traversi delle volte.
Interessante è l’uso dei materiali da costruzione: mattoni, blocchi in pietra lavorata, ciottoli sono utilizzati con notevole cura costruttiva, con un gusto per gli accostamenti cromatici che emerge molto bene nell’alternarsi di conci lapidei e laterizi negli archi sorreggenti le volte, le quali mostrano chiare sulla loro superficie le tracce delle centine lignee utilizzate per armarle durante la costruzione. Quali erano le funzioni di questo spazio all’epoca della sua realizzazione? Si può pensare ad un luogo di grande importanza rituale e liturgica, connesso – oltre che con la chiesa – con il chiostro mediante un portale sulla testata sud e con gli spazi esterni al priorato tramite un’altra apertura sul prospetto occidentale. È molto probabile il suo uso, perdurato anche oltre la fine dell’istituzione monastica, come spazio riservato a sepolture privilegiate, in linea con l’attenzione conferita dall’ordine cluniacense alla commemorazione dei defunti. Uscendo nuovamente all’esterno si possono cogliere le linee delle trasformazioni successive: l’originaria struttura a semplice portico (la copertura era impostata in corrispondenza della fascia in ciottoli che delimita a circa quattro metri di altezza il paramento in laterizi) viene sopraelevata in età bassomedievale, ottenendo un ampio vano al primo piano, che vecchie fotografie scattate prima dello sventramento determinato dai “restauri” distruttivi degli anni ’50 e ’60 dello scorso secolo ci descrivono ancora come coperto da un soffitto ligneo probabilmente quattro-cinquecentesco.
Nel XV secolo grandi finestre ogivali con cornici in cotto modanate vengono quindi aperte sul prospetto principale, che ormai si eleva sino a coprire completamente la facciata antica della chiesa. Tra XVII e XIX secolo una complessa serie di ristrutturazioni interessa l’avancorpo: il vano inferiore viene frazionato (ospiterà addirittura un torchio da vino durante l’Ottocento), mentre i vani superiori sono rimodulati con impalcati e tramezze, ed adibiti a locali abitativi e magazzini: a questo momento risalgono il portale di accesso e le finestre lobate nella parte sommitale della facciata esterna.
I già citati restauri a metà del Novecento intervengono su questo corpo di fabbrica con lo scopo di recuperarne le linee romaniche: si rimuovono tutti gli intonaci (anche quelli affrescati presenti sul prospetto esterno), si consolidano le volte romaniche, si demoliscono la scala di accesso ai vani superiori ed il soffitto ligneo del primo piano e si riportano in luce le linee dell’antica facciata della chiesa. La mancanza di fondi lascia incompiute queste operazioni, le quali hanno purtroppo reso difficilmente leggibile la successione di interventi che nei secoli ha interessato questa parte così significativa del complesso.
La visita prosegue entrando in chiesa tramite l’antico portale romanico: davanti a noi si apre un ampio spazio articolato in tre navate sostenute da pilastri cruciformi, dominato da una fitta decorazione risalente ai secoli XVII-XVIII che nasconde in gran parte le strutture romaniche, perfettamente conservate al di sotto dell’intonaco. Fatta eccezione per le volte, ricostruite in età moderna, pilastri, archi e murature perimetrali sono quelli medievali, come bene si nota nei punti in cui la caduta dell’intonaco (ad esempio sul primo arco destro in corrispondenza della tribuna dell’organo) svela l’ordinato apparecchio in blocchi lapidei accuratamente lavorati. L’ampiezza, maggiore rispetto alle precedenti, dell’ultima campata delle navate laterali prima del presbiterio rivela la presenza di un transetto interno, non aggettante all’esterno.
La zona absidale della chiesa è stata pesantemente rimaneggiata: demolite le absidiole laterali nord e sud, le ultime campate delle due navatelle sono state chiuse, ottenendo così due piccoli vani fiancheggianti il presbiterio. Anche l’abside centrale medievale incontra la stessa sorte, e dopo la sua demolizione viene rimpiazzata nel XVII secolo da un profondo coro, ornato da un’ancona ovale a muro, le cui decorazioni in stucco si scorgono ancora dietro l’attuale grande tela raffigurante i santi Pietro e Paolo e la Vergine: risale al primo Ottocento il massiccio altar maggiore in muratura ornato con stucchi e finto marmo, mentre è barocca la pregevole balaustra marmorea. Alle due pareti che, con la sistemazione moderna, concludono ad oriente le navate laterali, vengono addossati altari: a sinistra nel XVII secolo si costruisce l’altare di S. Carlo Borromeo (oggi dedicato, dopo la sua ricostruzione moderna in marmo, a S. Antonio), e a destra quello intitolato alla Vergine, già presente nella chiesa prima della ristrutturazione moderna.
Nei due piccoli vani di risulta a fianco del presbiterio molto ben leggibili sono resti architettonici medievali sfuggiti alla risistemazione barocca: nell’ambiente a destra, coincidente con la base della torre campanaria, si evidenziano le membrature lapidee romaniche di archi e pilastri ed i resti di una volta in laterizi, mentre nel suo omologo a sinistra oltre ad analoghi dettagli strutturali si può ammirare quanto rimane dell’apparato decorativo della chiesa bassomedievale. Nel sottarco di quello che originariamente era l’arco tra la campata e la navata centrale si scorgono decori ocra sul fondo bianco dell’intonaco a calce, probabilmente riferibili all’inizio del XVI secolo, momento in cui si colloca anche il particolare affresco realizzato sull’originario muro di fondo della navata laterale, costruito in luogo dell’absidiola demolita.
Attribuito alla mano del frescante Tommasino da Mortara, attivo in Lomellina tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo, è costituito da una superficie rettangolare divisa in due settori: nella parte destra spicca una insolita raffigurazione della SS.ma Trinità, rappresentata ripetendo la medesima immagine del Cristo. Si tratta di uno schema iconografico medievale che venne meno in età controriformistica, e del quale rimangono altre analoghe realizzazioni anche in area biellese (Benna). Nel riquadro a lato si nota S. Giacomo Maggiore, corredato da alcuni particolari che suggeriscono la narrazione del miracolo di S. Domingo de la Calzada, facente parte della tradizione legata ai pellegrinaggi a Santiago de Compostella. Sono ignote le vicende all’origine di un così particolare tema iconografico, forse da rimandare ad un committente che aveva compiuto un pellegrinaggio alla tomba del santo. La conoscenza della leggenda aiuta a comprendere l’affresco: una coppia di coniugi con un figlio è in viaggio verso la tomba del santo: durante la sosta in una locanda - nella città di S. Domingo de la Calzada - il giovane viene adescato dalla figlia dell’oste che, vistasi rifiutata, riesce a farlo incolpare di un furto non commesso.
Il giovane viene condannato ed impiccato, ma grazie all’intercessione di S. Giacomo - invocato dai genitori che hanno continuato il loro pellegrinaggio - rimane miracolosamente in vita. I coniugi, tornati a Calzada, si recano dunque a narrare l’accaduto al giudice della città: costui è a pranzo, seduto davanti ad un galletto arrostito. Infastidito, concede udienza ai due pellegrini, ma non crede al loro racconto. Risponde quindi sprezzante che il giovane è vivo come il galletto che si trova in quel momento nel suo piatto: ecco che all’improvviso il volatile riprende miracolosamente vita, confermando la verità dell’accaduto. Uscendo dalla chiesa dal portale laterale si può infine notare, accanto all’ultimo pilastro, un blocco in granito lavorato, sino ad alcuni anni fa collocato all’esterno, in prossimità della scarpata antistante la chiesa: si tratta di un cippo di età romana, verosimilmente di carattere funerario. La sua presenza richiama alla memoria anche quella della lapide in marmo bianco, ornata a rilievi con delfini, utilizzata come davanzale di una delle bifore dell’avancorpo e trafugata pochi decenni fa insieme alla colonnina ed al capitello che vi si impostavano.
Tornati nel cortile, tramite il portone di ingresso della casa parrocchiale ed un breve corridoio si accede ad un piccolo cortile interno, fiancheggiato a destra da una corte più bassa sulla quale prospettano gli edifici già facenti parte del rustico parrocchiale. Nella topografia delle fondazioni cluniacensi questa zona è talvolta occupata da alcuni edifici peculiari riferibili all’uso esclusivo da parte della comunità monastica, come ad esempio l’infermeria, e da una presenza riscontrabile in diversi contesti, a partire proprio da Cluny: la seconda chiesa. Sul lato nord, in direzione dell’abside della chiesa monastica, si colloca infatti un edificio che può essere ricondotto a una funzione cultuale; il paramento esterno in ciottoli a spina di pesce, segnato da due monofore e da un portale in laterizi sagomati di accurata fattura, presenta ancora i resti di un coronamento in archetti pensili.
L’interno si apre in un vano unico a terminazione rettilinea, caratterizzato, sul fianco meridionale, dai semipilastri in blocchi lapidei lavorati, da un portale – analogamente in pietra – che costituiva l’originario accesso alla chiesa dalla manica claustrale, e dai resti di una copertura voltata in muratura oggi sostituita da semplici capriate lignee. Grazie agli scavi archeologici nella zona retrostante la parete di fondo orientale si sono rinvenuti i resti di un'abside che costituiva la terminazione originaria di questo ambiente, il quale, per le sue condizioni di conservazione e la sua leggibilità, è assolutamente straordinario nel quadro delle fondazioni cluniacensi italiane, sovente segnate dalla scomparsa delle seconde chiese a seguito della cessazione della vita monastica. Citata nel 1668 come cappella della Vergine attigua alla chiesa priorale del S.S. Pietro e Paolo, e nel 1770 semplicemente come “chiesa vecchia”, la seconda chiesa a Castelletto sembra ripetere una concezione architettonica e liturgica direttamente derivata dalla casa madre. A Cluny, stando alle fonti scritte, l'oratorio di Santa Maria fungeva da secondo coro per i monaci e da chiesa per l'infermeria: qui venivano condotti i monaci agonizzanti per preparare il momento del trapasso, nell’ottica di un’attenzione per la liturgia funeraria che è propria del mondo cluniacense e che è all’origine dell’istituzione, proprio in questo contesto religioso, della festa del 2 novembre.
La presenza di questa struttura anche in un priorato suggerisce un grado di aggiornamento e di organizzazione spaziale estremamente avanzato, e, unitamente alle importanti testimonianze funerarie rinvenute nel chiostro, apre interessanti prospettive sui rapporti tra la fondazione e le aristocrazie locali, che è verosimile affidassero agli stessi monaci il suffragio e la cura dei propri defunti, a fronte della corresponsione di donazioni e lasciti.